domenica 21 agosto 2016

Non è vento


Quasi dieci giorni ero in Libano e ho scritto queste righe guardando il polveroso Akkar scorrere dal finestrino di un service:
Chiudi gli occhi e senti un posto... Lo senti che ti entra dentro, nelle narici con i suoi profumi e nelle orecchie con i rumori imprevisti. La vista è un senso sopravvalutato. Pensiamo di conoscere tutto attraverso i nostri occhi, ma cosa sarebbe la vita senza gli odori che sanno di vita e di morte?Senza i rumori accomodanti e quelli spaventosi? Senza l'aria sulla faccia che ti accarezza, senza la polvere che ti prende a cazzotti senza preavviso?Mi concentro su questi silenzi dolorosi degli addii, tra le lacrime e i sorrisi che si riservano solo a coloro a cui si vuole bene per davvero e che luccicano ancora del dolore del distacco. Fa paura il quotidiano, fa tanta paura l'idea di affrontare quello che è sempre stato con un animo diverso, ma è la sfida di inventarsi ogni giorno, ricominciando tutto da capo.Abbiamo bisogno di così poco e tutto è in prestito. Se niente ci appartiene, posso solo pregare di essere in grado di creare qualcosa di bello da lasciare a chi verrà dopo di me.

sabato 25 giugno 2016

La famiglia umana

Articolo originariamente pubblicato qui.
L'esperienza in Libano mi sta aprendo orizzonti belli e impensabili e ne sono tanto grata.

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Oggi è il sesto giorno di ramadan. Digiunare insieme a questa gente sta creando un rapporto di fratellanza che è difficile spiegare a parole.
Apparteniamo a due mondi differenti, così distanti che a volte non ci sembra nemmeno di abitare lo stesso pianeta.
Eppure.
Eppure qui mi sento sempre più parte di un'unica famiglia. La famiglia umana.
Non vedo differenze, vedo solo tanta voglia di una vita diversa, una voglia disperata di futuro.

Dicono che il nostro futuro siano i bambini; allora il futuro di questo popolo è indebolito in partenza. Qui i bambini non vanno a scuola, perché le scuole libanesi non vogliono siriani e, in ogni caso, quella più vicina sta ad un'ora di viaggio dal campo ed è un costo che le famiglie non
possono sostenere.
Sono bambini che agiscono con la paura, che spesso devono lavorare, sono bambini penalizzati in partenza, a causa di una guerra che, di certo, non era la loro.
"Tanto torniamo a casa presto", dicevano i loro genitori. Ma ormai sono intrappolati qui da 4, 5 anni e non si vede una via di uscita.

Dicono che il lavoro nobiliti l'uomo... ma qui in Libano non c'è lavoro per i siriani, non c'è per legge, e in ogni caso, sarebbe in nero e sottopagato.
Ci si deve arrangiare come si può per sopravvivere, perché gli aiuti non ci sono per tutti e 27$ al mese non bastano mai per dar da mangiare a tutta la famiglia.

Senza considerare le altre spese, perché in Libano i profughi ufficialmente “non esistono” e quindi non hanno diritti. Da più di un anno hanno anche smesso di contarli, non si sa se ce ne siano un milione, un milione e mezzo, due milioni...
Quasi due milioni di persone invisibili, senza casa, senza diritti, senza cure mediche. Quasi due milioni di persone invisibili, cancellate dalle nostre coscienze.

La maggior parte della loro esistenza si svolge qui, nell'area di Tel Abbas, perché allontanarsi significa correre il rischio di essere arrestati. Vivere qui è come essere in una gigantesca galera delimitata dai tanti posti di blocco presenti su tutto il territorio libanese.

È per questo che viviamo qui con loro, siamo la finestra sul mondo, la sicurezza di non essere arrestati o peggio; facciamo parte della comunità nel modo più semplice, condividendo le giornate e le tensioni, visitando le case e raccogliendo storie, preoccupazioni e bisogni.
A volte si tratta semplicemente di ascoltare e di permettere loro di evadere da questa sensazione di reclusione che si portano dietro; per altri siamo l'unica possibilita' per portare a termine le incombenze quotidiane come andare in farmacia o a una visita dal dottore.
La tensione cala sensibilmente solo per il fatto di sentire che ci siamo.

Siamo la possibilità di accedere alle cure di base perché in Libano la sanita è completamente privata e senza assicurazione curarsi è impossibile.
Da parte nostra proviamo a trovare, attraverso l'ONU e una rete di Associazioni locali, le risorse per le cure e accompagniamo chi ne ha la necessità presso le strutture mediche convenzionate.
In questo primo mese gli accompagnamenti sono stati tra le attività che ci hanno occupato di più perché nei mesi in cui il progetto è rimasto scoperto, molti hanno dovuto rimandare le cure per mancanza di risorse.
La speranza si sta piano piano esaurendo e molti non hanno più la forza di immaginarsi un futuro.

In sintesi è soprattutto questo il senso della presenza di Operazione Colomba tra i profughi: condividere con queste persone un tratto di strada, pensandoli semplicemente come esseri umani e pensandoci niente di più e niente di meno che esseri umani come loro.
Siamo insieme parte di questa grande famiglia umana e insieme ne portiamo il peso, se occorre.

P.

mercoledì 15 giugno 2016

Ma cosa andrai a fare?

(Articolo pubblicato qui)

Nelle settimane precedenti la partenza per il Libano, ogni santo giorno, mi toccava rispondere alla domanda di rito: "Ma cosa andrai a fare?".
Io, preparatissima, partivo snocciolando diligentemente la lunga lista di attività, obiettivi, aspettative (blablabla); tutto razionalmente impacchettato, archiviato e pronto all'uso.
Avanti veloce alla fine di maggio 2016, fanno quasi tre settimane che vivo nel campo profughi di Tel Abbas e quando mi viene posta la domanda: "Ma cosa fai tutto il giorno?" ho un'unica risposta plausibile: IMPARO!
Imparo prima di tutto cosa vuol dire nonviolenza, nell'epicentro di tutto questo dolore provocato dalla guerra, noi siamo il loro sorriso e loro il nostro.
"Siamo tutti parte dello stesso respiro" è un detto mediorientale molto popolare, ma solo in questi giorni sono riuscita a comprenderne il vero significato, abbandonando le aspettative che si trasformano in pregiudizi, dando un calcio al mio piedistallo da occidentale e accogliendo con curiosità quell'avventura che è la conoscenza reciproca.
Ecco, quello che faccio ogni giorno: in un posto che sembra parlare solo di morte, imparo la vita, il rispetto, la generosità disinteressata, l'apertura verso l'altro, la semplicità, il coraggio della speranza, la gratitudine...
Ed e' solo l'inizio!
P.

domenica 8 maggio 2016

Correre con le mie scarpe

61/365


Non ho bisogno di un'auto, di un televisore, del servizio buono, del salotto di design o di un armadio a 4 ante.
Vorrei piuttosto un paio di scarpe comode, una bicicletta per gli spostamenti più lunghi, degli occhi buoni, una macchina fotografica per fermare i ricordi e uno zaino da chiamare casa.
Voglio ritrovare la semplicità che ho perso.
La sensibilità sepolta sotto le macerie delle stupide lotte su cui mi impunto ogni giorno.
Rivoglio occhi che sappiamo vedere e che non si limitino a guardare distrattamente, per poi passare oltre.
Mente e cuore in grado di aprirsi al mondo.
Desidero gambe forti, mani e piedi pronti a sporcarsi per affrontare i sentieri insidiosi che inevitabilmente incontrerò; non sarò mai preparata, ma allenata alla fatica può bastare.
E alla fine di tutto questo voglio brindare con una birra al tramonto, un lusso a cui non posso rinunciare.

venerdì 6 maggio 2016

Il mondo esiste anche se chiudi gli occhi (cit.)


Tra qualche giorno partirò per il Libano per condividere un pezzo di strada con i profughi siriani che vivono nel campo profughi di Tel Abbas, nel nord del paese.
A molti questa scelta sarà sembrata un po' impulsiva, ma non lo è affatto! Non parto perché sono in crisi, non sto fuggendo da nulla. Parto proprio perché mi sono ritrovata!
Stiamo vivendo un periodo storico crudele, ma anche decisivo, perché tutti noi abbiamo un grande potere tra le mani, decidere da che parte stare: se parteggiare per la rivoluzione (nel senso astronomico di completare un percorso per poi tornare al punto di partenza) o per l'evoluzione; per la solidarietà o per l'indifferenza; per i ponti o per i muri.
E abbiamo l'opportunità di dirlo ad alta voce.
Per questo non parto per il Libano e basta, parto con l'Operazione Colomba, un corpo nonviolento di pace che, attraverso la condivisione, cerca di fare da amplificatore alle istanze di chi non ha voce.
A molti sembrerà un po' fuori dal tempo parlare di nonviolenza (e ad altri, forse, anche di pace...), ma non credo esista altro modo per realizzare questa evoluzione, se non agire la pace in tutti i contesti, anche dove  non c'è più spazio per la speranza e la pace sembra un'irraggiungibile chimera.
Anche a 10 minuti dal confine tra Libano e Siria, in mezzo a delle persone che noi, i privilegiati della Terra, ogni giorno derubiamo di un pezzetto della loro umanità.
Intendiamoci, questo viaggio non ha nulla di eroico, non mi "vado a mettere nei casini" e non fa di me una persona migliore di altre.
È una scelta. La mia speranza.

Safar Saied, P!

lunedì 25 aprile 2016

Il diritto di guardare il mondo dalla finestra


È un lunedì di festa, benedetto da un cielo terso; il sole che riscalda il vento del nord. 
La giornata perfetta da passare in casa.
Ebbene sì!
Io rivendico il mio diritto a vivere in calma e silenzio una giornata così. Rivendico il mio diritto a NON FARE. Rivendico il mio diritto all'assenza in una società presenzialista.
Rivendico il mio diritto ad essere stanca, ascoltando i segnali del mio corpo e assecondarli negando ogni contatto con questo mondo bello e luminoso.
Rivendico il mio diritto a fermarmi per nutrire la mia anima, lontano dagli stimoli fisici. Rivendico il mio diritto ad esplorare i meandri nascosti del pensiero, ascoltando parole belle per farle risuonare dentro di me in questo silenzio irreale di lunedì di festa, nella mia personalissima festa della liberazione dalla tirannia dell' mostrarsi, rivendicando il mio diritto ad essere.


mercoledì 6 aprile 2016

Buon viaggio lettera mia

Ieri ho scritto una lettera.
Sì, ho scritto una lettera. Nel 2016.
Dico una lettera vera, non una mail, proprio di quelle "carta e penna".

Mi ha fatto ripensare al periodo elementari/medie in cui gli amici di penna andavano di moda, o almeno, io ne avevo un paio: Noemi, dei dintorni di Perugia, ci siamo scritte per anni... Ci siamo anche incontrate un paio di volte!
E poi c'era una ragazza di Antananarivo, Madagascar, con cui ci si scriveva per esercitare l'inglese...il suo nome non mi viene proprio in mente!

Mi piaceva scrivere lettere: ritagliarmi un momento di tempo per rileggere la missiva ricevuta, scegliere con cura la carta, il colore dell'inchiostro e poi scrivere, rispondere alla solita domanda "come stai?" e lasciarsi prendere dai racconti delle roboanti avventure della me undicenne :)
Mi manca riceverle, le lettere. Mi manca buttare l'occhio pieno di speranza nella cassetta e scorgere una busta colorata insieme alle bollette e alla pubblicità della coop, correre di sopra a prendere le chiavi e di nuovo a razzo a recuperare quel prezioso messaggio.

Oggi abbiamo i cellulari, le e-mail sempre ed ovunque, what's app e i messaggi vocali, ma ci sono sentimenti, quelli che ti viene da dire solo occhi negli occhi, che si possono esprimere soltanto con la danza dell'inchiostro sulla carta. Perché dare forma alle emozioni attraverso la mia calligrafia è una vera e propria dichiarazione d'amore.
La vera ricchezza dei nostri giorni è il tempo e le lettere ne richiedono molto: una bella lettera non si butta giù di sfuggita e una volta conclusa non è immediatamente a disposizione del destinatario.
È questo il tempo più bello: il tempo dell'attesa, l'anticipazione che accompagna il viaggio di un semplice foglio di carta là, dove lo si attende.

Buon viaggio lettera mia, a te ho affidato alcuni dei miei sogni, so che mi posso fidare di chi li riceverà.