Articolo originariamente pubblicato qui.
L'esperienza in Libano mi sta aprendo orizzonti belli e impensabili e ne sono tanto grata.
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Oggi è il sesto giorno di ramadan. Digiunare insieme a questa gente sta creando un rapporto di fratellanza che è difficile spiegare a parole.
Apparteniamo a due mondi differenti, così distanti che a volte non ci sembra nemmeno di abitare lo stesso pianeta.
Eppure.
Eppure qui mi sento sempre più parte di un'unica famiglia. La famiglia umana.
Non vedo differenze, vedo solo tanta voglia di una vita diversa, una voglia disperata di futuro.
Dicono che il nostro futuro siano i bambini; allora il futuro di questo popolo è indebolito in partenza. Qui i bambini non vanno a scuola, perché le scuole libanesi non vogliono siriani e, in ogni caso, quella più vicina sta ad un'ora di viaggio dal campo ed è un costo che le famiglie non
possono sostenere.
Sono bambini che agiscono con la paura, che spesso devono lavorare, sono bambini penalizzati in partenza, a causa di una guerra che, di certo, non era la loro.
"Tanto torniamo a casa presto", dicevano i loro genitori. Ma ormai sono intrappolati qui da 4, 5 anni e non si vede una via di uscita.
Dicono che il lavoro nobiliti l'uomo... ma qui in Libano non c'è lavoro per i siriani, non c'è per legge, e in ogni caso, sarebbe in nero e sottopagato.
Ci si deve arrangiare come si può per sopravvivere, perché gli aiuti non ci sono per tutti e 27$ al mese non bastano mai per dar da mangiare a tutta la famiglia.
Senza considerare le altre spese, perché in Libano i profughi ufficialmente “non esistono” e quindi non hanno diritti. Da più di un anno hanno anche smesso di contarli, non si sa se ce ne siano un milione, un milione e mezzo, due milioni...
Quasi due milioni di persone invisibili, senza casa, senza diritti, senza cure mediche. Quasi due milioni di persone invisibili, cancellate dalle nostre coscienze.
La maggior parte della loro esistenza si svolge qui, nell'area di Tel Abbas, perché allontanarsi significa correre il rischio di essere arrestati. Vivere qui è come essere in una gigantesca galera delimitata dai tanti posti di blocco presenti su tutto il territorio libanese.
È per questo che viviamo qui con loro, siamo la finestra sul mondo, la sicurezza di non essere arrestati o peggio; facciamo parte della comunità nel modo più semplice, condividendo le giornate e le tensioni, visitando le case e raccogliendo storie, preoccupazioni e bisogni.
A volte si tratta semplicemente di ascoltare e di permettere loro di evadere da questa sensazione di reclusione che si portano dietro; per altri siamo l'unica possibilita' per portare a termine le incombenze quotidiane come andare in farmacia o a una visita dal dottore.
La tensione cala sensibilmente solo per il fatto di sentire che ci siamo.
Siamo la possibilità di accedere alle cure di base perché in Libano la sanita è completamente privata e senza assicurazione curarsi è impossibile.
Da parte nostra proviamo a trovare, attraverso l'ONU e una rete di Associazioni locali, le risorse per le cure e accompagniamo chi ne ha la necessità presso le strutture mediche convenzionate.
In questo primo mese gli accompagnamenti sono stati tra le attività che ci hanno occupato di più perché nei mesi in cui il progetto è rimasto scoperto, molti hanno dovuto rimandare le cure per mancanza di risorse.
La speranza si sta piano piano esaurendo e molti non hanno più la forza di immaginarsi un futuro.
In sintesi è soprattutto questo il senso della presenza di Operazione Colomba tra i profughi: condividere con queste persone un tratto di strada, pensandoli semplicemente come esseri umani e pensandoci niente di più e niente di meno che esseri umani come loro.
Siamo insieme parte di questa grande famiglia umana e insieme ne portiamo il peso, se occorre.
P.